Élites e Istituzioni nel pensiero di Guido Dorso
Élites e Istituzioni politiche nel pensiero di Guido Dorso

Francesco Bonito

 

Élites e Istituzioni nel pensiero di Guido Dorso

 

Massaro Editore
2024

 

Anteprima

Ebook 

ISBN 9791281053212

€ 6,00

Acquista

 

Formato cartaceo 

ISBN 9791281053274

€ 10,00

Acquista

 

 

Prefazione di Michele Galante

Francesco Bonito, magistrato di Cassazione, deputato per tre legislature (XII-XIV) e attualmente sindaco di Cerignola, ripubblica la sua tesi di laurea di 53 anni fa avente come oggetto “Élites e Istituzioni nel pensiero di Guido Dorso”. Lo scopo è quello non soltanto di verificare l’attualità del pensiero del grande meridionalista irpino quanto anche di provare a smuovere le acque sulla condizione del Mezzogiorno, sullo stato delle istituzioni elettive, sulla capacità delle classi dirigenti di operare quel salto necessario ad assicurare a questa parte dell’Italia lo sviluppo culturale, economico, sociale e istituzionale che le sue popolazioni aspettano da decenni.

 

La sua tesi di laurea nasceva in un clima di grandi speranze. L’intervento della Cassa per il Mezzogiorno aveva aperto, seppure parzialmente, nuove attese e il confronto serrato tra i grandi meridionalisti (Saraceno, Morandi, Amendola, Menichella, ecc.) costituivano uno stimolo a ridurre il divario tra il Nord e il Sud dell’Italia.

 

L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario nel 1970 aveva suscitato un moto di simpatie e di speranze che in realtà si infranse subito contro le persistenti resistenze di buona parte del ceto politico meridionale che si dimostrò incapace di darsi un progetto di sviluppo per questa area del Paese e si limitò a gestire in modo clientelare i poteri conferitigli dallo Stato centrale.

 

L’intuizione e la proposta di Guido Dorso a favore di uno Stato non più centralista ma capace di far valere l’autonomismo delle popolazioni non ebbe successo.

 

Da diversi anni il Mezzogiorno è stato di fatto cancellato dall’agenda politica dei governi che si sono alternati alla direzione del Paese. Anzi, per diversi settori politici, culturali ed economici la questione meridionale non esiste più. L’idea che far crescere il Mezzogiorno per far crescere l’Italia intera nelle nuove condizioni dettate dalla competizione internazionale non sfiora la mente di quanti hanno responsabilità politiche. La conseguenza è che il malessere del Mezzogiorno si è aggravato: disoccupazione, impoverimento, precarietà del lavoro, incertezza del futuro, contrazione della popolazione, una forte ripresa dell’emigrazione verso il Nord dell’Italia e degli altri paesi europei ed extraeuropei di giovani laureati e diplomati al ritmo di centomila persone all’anno da quindici anni testimoniano ad abundantiam che il divario invece di ridursi si è allargato. A tutto ciò si aggiungono una criminalità economica e mafiosa, capace di controllare una parte delle risorse pubbliche e di condizionare le scelte delle amministrazioni, e l’estensione patologica del trasformismo politico che la scomparsa dei partiti ha determinato, impedendo l’affermarsi della lotta politica moderna come confronto di idee e di proposte. E sul terreno culturale ha preso piede la “questione settentrionale”, i cui sostenitori rivendicano maggiori risorse per le Regioni del Nord.

 

Di questo stato di cose portano la responsabilità sicuramente coloro che hanno governato l’Italia, ma non minore responsabilità portano le classi dirigenti del Mezzogiorno che non si sono rivelate all’altezza dei compiti che la situazione poneva. La speranza di Guido Dorso che “cento uomini di acciaio” potessero invertire la rotta è andata delusa.

Sull’incapacità delle classi dirigenti del Mezzogiorno si è da poco innestata la proposta di legge Calderoli di “autonomia differenziata”, che viene giustificata con lo scopo di responsabilizzare la classe politica del Mezzogiorno per giungere ad un uso più efficiente della spesa pubblica, ma che di fatto porterà ad una ulteriore riduzione di risorse al Sud e alla creazione di venti staterelli. La cosiddetta secessione dei ricchi, che mette in discussione fondamentali diritti di cittadinanza quali quelli alla salute, all’istruzione, ad un ambiente sano e pulito, ad un lavoro dignitoso e ben retribuito e così via. Un colpo mortale all’unità dell’Italia.

 

A tanto si è giunti, non soltanto per un calcolo politico della Lega di Salvini, ma anche per l’insipienza e la meschinità delle classi dirigenti meridionali, che non sono soltanto i politici, ma anche i burocrati, gli imprenditori, i giornalisti, i professionisti, i docenti universitari, i medici, gli avvocati, i manager, ecc. La classe dirigente non è soltanto quella che amministra i comuni o le regioni. È quell’insieme di persone che in funzioni diverse, in ruoli diversi hanno una visione comune della società da mandare avanti, una visione del come una società debba svilupparsi, di dove si vuole andare a parare, superando sfrangiamenti, divisioni e contrapposizioni, accrescendo il capitale sociale, riducendo le spinte individualistiche e aumentando lo spirito comunitario.

 

Purtroppo, si deve constatare che ora non c’è una classe dirigente in grado di prospettare una meta e un orizzonte di rinnovamento e sviluppo del Mezzogiorno.

 

Il libro di Francesco Bonito costituisce una spinta a misurarsi con queste problematiche.

Michele Galante*

*Michele Galante ha ricoperto la carica di Segretario provinciale del PCI; Parlamentare nella circoscrizione Bari-Foggia; Componente della Commissione Difesa e rappresentante per la Camera nella Conferenza per lo Sviluppo e la Cooperazione in Europa, ora Osce, insieme a Boffa, Sarti e Granelli.

 

Tra le sue pubblicazioni: Criminalità e illegalità in Capitanata, Edizioni dal Sud; Parco Nazionale del Gargano. Il difficile avvio, Edizioni dal Sud; L’eccidio ignorato, Edizioni dal Sud.

 

Cenni biografici sono riportati su:

storia.camera.it/deputato/michele-galante-19480426

https://it.wikipedia.org/wiki/Michele_Galante

 

Premessa

Ho chiesto al Centro di ricerca “Guido Dorso” per lo studio del pensiero meridionalistico di Avellino la pubblicazione della mia tesi di laurea risalente al 1971 e, quindi, dopo oltre mezzo secolo, sia perché la sua rilettura, dopo il mio pensionamento dalla magistratura ordinaria per raggiunti limiti di età, settanta anni, mi è sembrata, in qualche misura, ancora attuale (fino a quando esisterà nel nostro Paese una questione meridionale Guido Dorso continuerà ad essere un punto di riferimento per ogni meridionalista democratico), sia perché ho pensato essere cosa  utile al Centro, nel contesto della sua lodevolissima azione finalizzata a mantenere viva la lezione dorsiana, raccogliere, a fianco dei numerosi e ben più autorevoli saggi da essa curati, segnalati e stampati, anche una tesi di laurea sulla figura dell’illustre avellinese, concreta testimonianza dell’attenzione mostrata in tale direzione da parte di quella gioventù studentesca che, intorno al sessantotto, non poche novità introdusse nella cultura, nella politica e nella società italiana. Sfatando non pochi pregiudizi, credo di essere la prova che, insieme a Marcuse, noi studenti del Sud, studiavamo anche Antonio Gramsci e Guido Dorso.

Il laureando che chiese a Sergio Cotta, autorevolissimo docente di filosofia del diritto presso La Sapienza di Roma, di addottorarsi con una tesi su Guido Dorso e che ebbe poi, nel prof. Massimo Corsale, per tanti anni impegnato presso l’Università di Salerno, il relatore affidatario, era un giovane meridionale, di sinistra per scelta e per tradizione familiare, aderente al movimento studentesco nel quale vedeva uno strumento nuovo di partecipazione politica capace di rompere quella  rigidità del sistema che soffocava allora l’Italia impedendone, e comunque frenandone, lo sviluppo culturale, sociale ed economico.

Quel giovane sognava di diventare magistrato, come il padre, dal quale aveva imparato una nobilissima lezione, ovverosia che il giudice è consustanziale ad ogni consesso civile, perché senza di esso si imporrebbe la legge del più forte, mentre la presenza di un giudice assicura la tutela anche del più debole. Ma la tutela del più debole non può essere soltanto quella affidata al giudice, è per questo necessario qualcosa di più compiuto, di più ampio, di più importante, in una parola un progetto politico, per il quale è giusto impegnarsi. Per questa ragione credevo allora, come credo adesso, che fosse necessario battersi per la propria terra, la parte debole del Paese, la terra di Di Vittorio, mio illustre concittadino.

Ecco perché, detto in due parole, decisi di laurearmi chiedendo di studiare le opere di Guido Dorso, che conoscevo come meridionalista democratico e teorico di scienza politica, profili entrambi per i quali provavo grande interesse di conoscenza e di approfondimento.

Non sono stato soltanto un magistrato, peraltro orgogliosamente pervenuto al massimo delle funzioni giurisdizionali, quelle di legittimità, svolgendo anche funzioni di presidente della prima sezione penale della Cassazione e di consigliere assegnato alle Sezioni unite, ma ho rappresentato in Parlamento la mia città, in quanto eletto deputato della Repubblica nel 1994, nel 1996 e nel 2001, esperienza questa che mi ha consentito di arricchire le mie conoscenze utilizzando un osservatorio tutto politico delle questioni del Mezzogiorno e che mi consente ora di denunciare, rispetto ai tempi nei quali Guido Dorso sviluppava le sue analisi politiche, sociali e teoriche, l’aggravarsi della questione meridionale.

In primo luogo, come pensava il Nostro Autore, il Mezzogiorno non avrà mai livelli di sviluppo coerenti con quelli del resto del Paese fino a quando non si formerà una classe dirigente adeguata, classe dirigente che non esisteva negli anni nei quali pensava Guido Dorso e che non esiste nell’attualità.

È innegabile che il Sud abbia espresso uomini politici di grande, spesso enorme spessore, Moro, in primo luogo, anche per il suo martirio, ma accanto a lui, i campani Napolitano e De Mita, il pugliese Di Vittorio, già ricordato, il calabrese Giacomo Mancini, i siciliani Macaluso, Li Calzi, il nostro presidente Mattarella, per citarne solo alcuni.

Ma singole personalità, come ci insegna Dorso, non sono di per sé sufficienti per caratterizzare una complessiva classe dirigente, della quale possono essere Maestri, esempi, ispiratori, ma niente di più. La classe dirigente, la cui insufficienza si può facilmente registrare oggi nei governi locali, nelle municipalità non meno che nelle regioni, per essere tale e connotarsi quanto a funzionalità ed efficienza, deve coinvolgere parti apprezzabili della società meridionale, della sua cultura, delle sue libere professioni, della sua burocrazia, deve trovare la sua genesi essenziale nella selezione operata dai partiti, ma tutto ciò tarda a venire ovvero si realizza, in concreto, in modi insufficienti, incompiuti, inadeguati.

E questo appare in termini netti ed inequivocabili nella esperienza passata ed in quella in corso del governo locale, sulla quale Dorso ha scritto molto, anticipando, e non di poco, le teoriche e le problematiche dell’autonomismo che di lì a poco saranno oggetto di grande discussione in sede di assemblea costituente. Ebbene, come è noto, quell’autonomismo fortemente auspicato dal Dorso come strumento di democrazia e sviluppo, come fattore propulsivo della circolazione delle élites politiche, nell’Italia repubblicana ha avuto lenta ma inesorabile affermazione ed attualmente il nostro Paese ha istanze di governo locale diffuse e democraticamente partecipate, le Regioni innanzitutto, le Provincie e, importantissimi, i Comuni.

E dove la insufficienza delle classi dirigenti meridionali appare più grave, dove per questo essa determina le conseguenze più negative, i ritardi più evidenti è nel governo delle municipalità. All’epoca degli scritti dorsiani i comuni italiani erano ancora appendice governativa del ministero degli interni, comuni i quali, pur arricchendosi, successivamente, con la elezione democratica dei loro rappresentanti, mantennero nel tempo la sudditanza di uno stretto controllo ministeriale, esercitato sia con l’esame sovraordinato di ogni atto deliberativo di giunta o di consiglio comunale, sia attraverso lo strettissimo dosaggio e la programmazione dall’alto delle risorse economiche loro destinate.

Da circa trent’anni il quadro giuridico-amministrativo dell’ente locale è però radicalmente cambiato. Oggi l’autonomia comunale, quanto meno nei suoi profili normativi (altro discorso meritano quelli economici), è una realtà che avrebbe soddisfatto financo un teorico severissimo come Guido Dorso, ma quell’autonomia chiama, vuole, esige una classe di governo locale in grado di cogliere le possibilità creative del ruolo, di formulare progetti, di articolare programmazioni alte e di lungo respiro. Ebbene, raramente i nostri sindaci e, soprattutto i nostri assessori hanno dimostrato autorevolezza e capacità adeguate ai compiti loro assegnati.

A tutto ciò quanti si occupano di Mezzogiorno, chi per esso lotta, nella società, nella economia, nella vita quotidiana, quanti per esso analizzano, studiano e propongono devono aggiungere la questione criminale, della quale Guido Dorso non ebbe né modo né tempo di occuparsi, ma che rappresenta una delle ragioni dell’aggravamento della questione meridionale.

La presenza dominante nel Mezzogiorno della criminalità organizzata è una specificità tutta meridionale, politicamente rappresentata, in termini inequivocabili, da una commissione parlamentare straordinaria, quella antimafia, la quale pur essendo, appunto, straordinaria, viene puntualmente ricostituita, da decenni, all’inizio di ogni nuova legislatura, a dimostrazione che non già di una eccezionalità essa si occupa, ma di una tragica ordinarietà, ulteriormente penalizzante, oltre ogni immaginazione, del nostro sviluppo.

Mi chiedo, con viva curiosità, quali pensieri, quali teorizzazioni, quali proposte avrebbe sviluppato su questi temi un meridionalista democratico ed assai severo come Guido Dorso.

Cinquant’anni fa fu una giovanile passione politica a spingermi verso lo studio delle élites politiche e del pensiero di chi aveva traghettato quelle teoriche dalla conservazione di Mosca e Pareto verso ben più affascinanti prospettive democratiche. Oggi, dopo ricche esperienze di vita, una analoga forza ideale, anagraficamente non più giovanile ma giovane ed attuale per contenuti e prospettive, mi spinge a riproporre quella lezione meridionalistica capace di dare un senso ed una rinnovata forza al mio impegno per la nostra gente.

Il testo della tesi è, ovviamente, quello originario e risente, avevo poco più di vent’anni nel 1971, di una acerba scrittura che, qua e là, ho cercato di ingentilire. In egual misura, a beneficio della comprensione del testo, ho, sempre qua e là, arricchito e chiarito le note al testo.

Cerignola, 28 marzo 2024

Francesco Bonito

Condividi: